Vi sono autori come Suzanne Simard, Peter Wohlleben, Richard Powers e Stefano Mancuso, che hanno avuto molto successo nella divulgazione scientifica grazie ad una narrazione che tende ad “umanizzare” gli alberi.
Il loro stile ricorre ad analogie e similitudini per evidenziare gli aspetti che, con innegabile evidenza, accomunano l’uomo al resto delle creature. La proposta filosofica sembra essere quella, tutto sommato, di riallacciare il legame tra tutte le forme viventi della biosfera all’interno della vasta rete di relazioni che caratterizza la natura più profonda degli ecosistemi.
Questa narrazione è stata sottoposta ad una critica metodologica da alcuni autori o giornalisti, alcuni dei quali di notevole spessore, come Daniel Immerwhar, che giustamente osserva come si corra il rischio di descrivere la natura con delle virtù del tutto umane che, probabilmente, non sono intrinseche alla natura stessa. Tale interpretazione è stata sposata dal giornalista Luigi Torregiani, che si chiede se sia giusto utilizzare una narrazione “antidolorofica” per non affrontare invece gli aspetti che, pur naturali, conducono a conclusioni meno ottimistiche e tranquillizzanti, come la competizione, la predazione e il parassitismo. Giusta osservazione, verrebbe da dire, visto che l’uomo, come specie biologica ed economica, all’interno degli ecosistemi non si comporta solo in modo collaborativo, ma anche competitivo e parassitico.
Noi osserviamo che, se pensare agli aspetti che accomunano alberi ed umani è positivo per la psiche umana e per le foreste, che in tal modo hanno una possibilità in più per salvarsi dallo sfruttamento produttivo, allora è bene umanizzare gli alberi.
D’altro canto è noto come la loro disumanizzazione, così come quella degli animali, porta a mettere in risalto quelle differenze che rischiano di metterci su piani diversi, e procedere allo sfruttamento senza porci problemi morali. Questa osservazione però trascura di evidenziare un altro problema, forse più serio. Piuttosto che con le buone emozioni, la disumanizzazione potrebbe tranquillizzarci in un altro modo, cioè con il cinismo, il distacco emotivo e preventivo da ogni legame affettivo con la natura. In tal modo non soffriremo della futura e immancabile separazione, che sarà operata da uno strumento di taglio come ad esempio una motosega.
Tuttavia questo cinismo ci sottrae al dovere morale di valutare il bilanciamento tra la nostra necessità e il sacrificio necessario a soddisfarla, facendoci inoltrare spensieratamente nel superfluo, vera anima del commercio.
Ci viene in mente, con piacere, un qualsiasi mese di febbraio nella contea di sabbia di Aldo Leopold, ad ascoltare il lento e faticoso alternarsi dei denti della sega, a ritroso della vita della vecchia quercia uccisa dal fulmine, destinata alla stufa, e alla gratitudine per le altre querce che cresceranno dopo. Ci rattrista invece il rumore arrogante e violento delle motoseghe che tagliano sistematicamente migliaia di ettari di foresta, anche nel nostro paese, per soddisfare l’economia del superfluo.
Poiché alla fine il bene si fa e non si dice, nel senso che, dopo una opportuna riflessione, è comunque richiesta una scelta pragmatica, noi scegliamo quindi di umanizzare gli alberi per sottrarli, come fece Zeus con Dafne, alle morbose attenzioni di un amore eccessivo e narcisistico che è solo voglia di possesso.